di Claudia Viggiani

Torno a Roma dopo una lunga assenza e la trovo calda e luminosa più di quanto mi aspettassi.
La luce del sole scalda i monumenti e li rischiara, come la luna il mare.
Cammino a lungo per ritrovare la mia amata città, così bella e accogliente da commuovermi.
La periferia romana, dove vivo, è, a tratti, circondata da una natura incontaminata e vissuta da chi ci vive come se fosse un paese. Tutti si conoscono e quando si incontrano si scambiano un cenno di saluto.
Entro nel bar dove vado quando parto da casa per recarmi in centro e il barista mi dice “che te faccio Cla? Il solito caffettino?” Che sensazione unica, quella di sentirsi a casa in un locale che non è tuo, tra persone che non conosci o conosci a mala pena.
Bevo il caffè, sorrido e pago. Salgo sul motorino e parto: ho un importante appuntamento in largo Santa Susanna.
Entro, incontro la persona con la quale discuto di un progetto che mi piace molto e riguarda un dipinto da me scoperto anni fa all’Aventino. Parliamo per circa un’ora, guardo l’orologio, saluto ed esco.
Sono felice. Ho ancora mezz’ora tutta per me, prima di mettermi a scrivere.
Cammino lungo via Barberini, in discesa. Rido pensando al ritorno, in salita. Guardo quale marciapiede sia in ombra così più tardi potrò regolarmi al meglio per non prendermi un’insolazione.
L’ampia strada, aperta tra il 1926 e il 1931, con il nome via Regina Elena, conduce in piazza Barberini, proprio lì dove voglio andare io.
Qui vicino lavora Elyssa, una mia amica americana, da anni trapiantata a Roma, città che ama come se ci fosse nata e sempre vissuta.
Chissà, magari la incontro mentre cammino e attraverso la strada per arrivare al centro della piazza…
Non posso crederci: è lei, la vedo e le vado incontro. Elyssa sta scattando una foto, io sorrido e la chiamo.
Ridiamo.
Le racconto che avevo appena pensato a lei e ci facciamo un selfie per ricordare questo momento.
Torno sui miei passi e giro intorno ad una delle fontane più famose di Roma.
È il Tritone, uno dei tanti capolavori di Gian Lorenzo Bernini, iniziato e portato a termine tra la fine del 1642 e la prima metà del 1643.
La scultura, in travertino, orna la fontana alimentata dall’Aqua Felix, l’Acquedotto Felice, realizzato tra 1585 e il 1587 per volere di papa Sisto V, al secolo Felice Peretti, dal quale prende nome, su progetto di Matteo Bortolani e poi di Giovanni Fontana che realizzò – insieme al più celebre fratello Domenico – la mostra terminale, o Fontana del Mosè, visibile in piazza San Bernardo.
La Fontana del Tritone fu voluta da papa Urbano VIII Barberini come “pubblico ornamento della città”, e nello specifico, della piazza sulla quale si affacciava il nuovo palazzo di famiglia che il nipote Francesco stava trasformando in mastodontica residenza dopo aver acquistato Villa Sforza, già proprietà del cardinale Rodolfo Pio da Carpi.
Mi posiziono all’ombra dei palazzi per vedere meglio la scultura.
Tritone, qui rappresentato come il Dio marino Τρίτων (Triton) degli antichi Greci, ha il tronco umano e la parte inferiore divisa in due code squamose, appoggiate sulle valve della grande conchiglia, sostenuta da quattro delfini con le fauci spalancate.
Il suo corpo sinuoso è contratto: fa fatica a tenersi in equilibrio mentre solleva la pesante bùccina tortile, usata come tromba. Tritone soffia dentro lo strumento a fiato ma, invece del suono, miracolosamente, esce un getto di acqua che gli si versa addosso, inondandolo di gocce che cadono nelle valve e poi nella vasca sottostante.
Bernini, che certamente vide la Fontana dell’Aquila (o dello scoglio) realizzata da Stefano Maderno nel 1612 per i Giardini Vaticani, ispirandosi fortemente alla figura di Tritone che soffia nella bùccina, rappresenta un episodio del mito del caos primigenio e del diluvio, così come narrato da Ovidio nelle Metamorfosi.

“Cessò la furia del mare e, deposto il suo tridente,
il dio degli oceani rabbonì le acque, chiamò l’azzurro Tritone,
che sporge fuori dai gorghi con le spalle incrostate
di conchiglie, e gli ordinò di soffiare nel suo corno
sonoro, perché a quel segnale rientrassero
flutti e fiumi. E quello prese la sua bùccina cava
e ritorta, che dalla punta si allarga a spirale,
la bùccina che, se le si dà fiato in mezzo al mare,
riempie con la sua voce le coste da levante a ponente.
Anche allora, quando tra la barba madida la portò alla bocca
gocciolante e, soffiando a comando, sonò la ritirata,
l’udirono tutte le acque del mare e della terraferma,
e tutte, udendola, ripresero i loro confini.”

Nelle Metamorfosi di Ovidio le acque si ritirano grazie all’intervento degli dei che, mettendo ordine al chaos primordiale, danno origine al mondo.
Evidentemente papa Urbano VIII volle celebrare il Tritone canoro che – controllando i mari – portò la pace e la vita, così come egli stesso fece, canalizzando l’acqua sul colle barberiniano, prevalentemente coltivato a vigna, e donando ai romani una nuova fontana pubblica, la Fontana delle Api, ad uso dei pellegrini e dei viandanti, originariamente collocata sull’angolo di palazzo Soderini, tra piazza Barberini e via Sistina, e successivamente trasferita all’inizio di via Veneto.
Guardo la base della Fontana del Tritone con gli enormi delfini dalla forma barocca e l’ampia bocca dentata, che reggono con le code le chiavi degli stemmi papali, decorati con la tiara e le api, simbolo araldico della famiglia Barberini. Gli scudi delle insegne sono accartocciati, come se fossero stati bagnati nell’acqua dell’ampio catino dal quale i delfini li hanno tirati fuori per mostrarli al mondo intero.

Tritone di Bernini

Gian Lorenzo Bernini, Fontana del Tritone, Roma

Giro intorno per guardare bene i mammiferi: sono quattro e fanno paura. Forse dovevano spaventare coloro che pensavano che l’acqua fosse pubblica mentre invece era privata, ad uso solo dei Barberini.
L’acqua era preziosa all’epoca e chi la voleva, doveva pagarla.
Quando la Fontana del Tritone fu costruita, Bernini, che era anche prefetto alle acque, fece aumentare la portata giornaliera dell’acquedotto Felice di 300 once, per arrivare a 60.000.000 di litri, un’immensità per l’epoca.
Mi allontano dal Tritone per cercare con lo sguardo la piccola Fontana delle Api: è carina, messa lì, sotto gli alberi, con le sue valve aperte e le tre api Barberini. Api o tafani? Si dice che in origine l’emblema della famiglia fossero proprio i Tabanidi o Tafani. Non riesco a leggere bene l’iscrizione ma parla del papa che nel 1644 fece costruire la fontana a pubblico ornamento dell’urbe e il fontanile per l’uso dei cittadini.
Prima di lasciare la piazza, non resisto alla tentazione, mi volto ad osservare di nuovo la fontana al centro della piazza: vedo la parte posteriore del Tritone, che mi sorprende sempre. Vorrei avere una scala per salire e vederla da vicino. Mi piacciono la schiena flessuosa, i capelli bagnati e le gocce d’acqua che cadono, come il sudore, sotto le spalle fino ai fianchi. Dall’alto si potrebbero vedere meglio anche le code del Tritone aperte sulle valve che immagino colme di acqua.
L’acqua è ovunque: è parte fondamentale della fontana e senza di essa il movimento ascensionale della scultura perderebbe il suo significato. Tutto ha un inizio ed una fine. Dal basso verso l’alto e viceversa.
L’acqua arriva nella vasca dal sottosuolo e, grazie all’illusione creata da Bernini, sembra bevuta dai delfini che la trasportano in alto dove sgorga, con il soffio energico del dio, nel cielo.
Sembra di sentire il suono che esce dalla bùccina. E, se non fosse per tutte queste automobili, riuscirei anche a sentire meglio il fragore dell’acqua stessa.
La giornata è bellissima e la luce scalda l’atmosfera. Mi viene in mente D’Annunzio che ne Il Piacere, alla vista della fontana, scrisse che il “cuore gli si sollevò. La fontana del Bernini brillava singolarmente al sole, come se i delfini, la conchiglia e il Tritone fosser divenuti d’una materia più diafana, non pietra e non ancor cristallo, per una metamorfosi interrotta”.