di Claudia Viggiani

Dal cancello su via delle Quattro Fontane, attraverso il piccolo giardino, raggiungo la biglietteria della Galleria Barberini.
L’impatto con l’imponente palazzo mi lascia sempre stupita e incredula. Quanti soldi devono aver speso i Barberini per costruire questa dimora? Prima di venire a vivere qui, abitavano nella “Casa grande” ai Giubbonari, sottodimensionata per le esigenze del cardinale Maffeo che, nel 1620, disponeva di una “famiglia” di quarantasei persone. Edificato a partire dal 1628, inglobando Villa Sforza, il Palazzo alle Quattro Fontane passò prima sotto la direzione di Carlo Maderno e successivamente sotto quella di Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini e Pietro da Cortona.
Tutti architetti di grido, famosissimi all’epoca; “star” internazionali ed eccentriche che volevano risplendere di luce eterna, come poi è realmente accaduto, come sta accadendo.
L’ingresso al museo è bellissimo, elegante, prestigioso, ma senza sfarzo.
È al piano terra di un edificio che si sviluppa su molti piani, dai sotterranei, attraverso i mezzanini fino all’attico e al sottotetto.

Gian Lorenzo Bernini, Scala, Palazzo Barberini, Roma

Salgo dalla scala di Gian Lorenzo Bernini, restaurata da poco e riportata al suo antico splendore. È bellissima e vado su lentamente per guardarla. Il bianco del travertino mi avvolge. C’è tanta luce e per vedere meglio mi riparo dietro le colonne binate e i pilastri angolari.
Mi affaccio più volte salendo: è divertente immaginare quante persone si siano sporte da questa balaustra. Alzando lo sguardo posso anche scorgere il cielo di Roma sopra di me.
Al primo piano, nella sala 12, si trova il quadro che sto andando a vedere, uno degli ultimi ritratti realizzati da Raffaello, straordinario artista al quale fu dato il titolo di magister fin dall’età di diciassette anni.
Alla fine del XVI secolo, il dipinto, un olio su tavola, si trovava nella collezione Sforza di Santa Fiora per passare, all’inizio del XVII secolo, in quella Boncompagni e, qualche decennio dopo, nella raccolta Barberini. Secondo un’antica tradizione, il dipinto rappresentava Margherita Luti, figlia di un fornaio trasteverino, amante ufficiale del pittore; ma recenti e più attendibili studi sostengono, in maniera plausibile, l’ipotesi che la donna ritratta da Raffaello sia una figura allegorica oppure una donna di difficile identificazione, rappresentata comunque nelle sembianze di Venere.
L’emblematico titolo del quadro, comparso per la prima volta nel XVII secolo, in un’incisione che riproduceva il capolavoro, indica in maniera molto esplicita l’attività svolta da una prostituta, disponibile ad avere rapporti sessuali con il suo amante. La parola “fornarina”, dal latino fornix-ĭcis, era, infatti, diffusa nei secoli passati per designare una donna di strada, che esercitava la sua professione sotto le arcate, fornices, dei teatri o dei monumenti pubblici. La parola conserva ancora oggi la stessa radice, presente sia nel verbo fornicare sia nella parola fornice utilizzata per indicare una grande apertura ad arco in architettura e un ripiegamento di parti del corpo in anatomia.
Questa donna chi è? E perché questo quadro è stato conservato da Raffaello proprio nel suo studio, sino alla morte avvenuta nel 1520? Chi era il committente al quale presumibilmente il quadro non è mai stato consegnato, forse per la prematura morte di qualcuno?
A guardarla bene, questa Venere pudica, ritratta in un boschetto di mirto e melo cotogno, con l’armilla al braccio, i seni scoperti e le mani utilizzate per indicare in maniera inconfondibile e con gesti provocanti le due parti del corpo con le quali concepire e allattare un figlio, sembra essere molto cara al pittore.
Era una prostituta? Non credo. Probabilmente, era una promessa sposa che doveva, in questo quadro erotico, dare prova delle sue doti e della sua capacità di procreare per essere la prescelta, la più amata tra molte. La prediletta di un uomo ricco e famoso, senza dubbio.La donna si contraddistingue per la sua sensualità, accresciuta dallo sguardo provocante rivolto verso gli spettatori e dal seducente sorriso appena accennato.
Il dipinto è un’allegoria del matrimonio che mostra le virtù di una brava moglie alla quale ipoteticamente era destinato. La donna ritratta porta all’anulare sinistro un anello, chiaro simbolo coniugale e, sul turbante, un altro gioiello, arricchito solo da una perla, simbolo essenziale della femminilità creatrice, generata dalla luna. La presenza solo di questi due monili, allusivi al matrimonio e all’amore vero, non lasciano dubbi sulla destinazione del quadro.
La donna ritratta è una donna cortese, sicura di sé, ben educata all’amore, ritratta nel fulgore della giovinezza, immersa con grazia e forza nell’atmosfera che la circonda. È una dama di alto rango, perfettamente in grado di garantire la discendenza e con essa il diritto all’eredità.
Dall’ultimo restauro della tavola, è emerso che l’anello nuziale, posto alla falange dell’anulare sinistro, fu ricoperto dallo stesso Raffaello con una velatura del colore dell’incarnato. Nessuna copia coeva al ritratto presenta, infatti, traccia di questo anello, improvvisamente nascosto dal pittore. Per quale motivo? La donna non andò più in sposa al suo promesso? Oppure è successo qualcosa di grave subito dopo il matrimonio?
La giovane potrebbe essere Francesca Ordeaschi, nata a Venezia da un’umile famiglia che la cedette ancora bambina ad Agostino Chigi per farla educare in collegio.
Cresciuta, ma ancora ragazza, la Ordeaschi fu trasferita nella dimora romana del Chigi, uno degli uomini più ricchi del tempo, che prestava i suoi soldi ai potenti, e non solo, di tutto il mondo.
Dal 1511 circa, Francesca visse con Agostino Chigi more uxorio, come una moglie, fino al 1519, anno in cui il banchiere senese, forse presagendo la fine ormai prossima, volle regolarizzare la sua posizione con una solenne cerimonia di nozze.
I due furono sposati per poco più di sette mesi, dal 28 agosto 1519 al 10 aprile 1520, giorno in cui Agostino Chigi morì all’età di 55 anni.
Negli otto anni precedenti al matrimonio, i due concepirono ben cinque figli, quattro dei quali dati alla luce da Francesca quando Agostino era in vita, Lorenzo Leone, Alessandro Giovanni, Margherita e Camilla mentre l’ultimo, Agostino, nacque dopo la morte del padre.
Il matrimonio tra Francesca e Agostino, celebrato a Villa Chigi in via della Lungara, suscitò grande interesse perché nessun invitato al banchetto sospettò di recarsi in realtà al matrimonio da gossip, quello tra un uomo milionario e una giovane di modeste origini.
Tale avvenimento provocò, di conseguenza, un vero e proprio scandalo che la famiglia Chigi mise a tacere pochi mesi dopo la morte di Agostino, facendo avvelenare la povera Francesca.
Il corpo della giovane donna non fu neanche tumulato nella cappella in Santa Maria del Popolo, progettata dallo stesso Raffaello per accogliere le spoglie mortali di Agostino e della sua famiglia.
Il corpo di Francesca fu, infatti, sepolto altrove, lontano dal marito e dagli sguardi indiscreti dei curiosi, in un luogo dove presto fu dimenticata.
Raffaello, artista prediletto dal Chigi, che gli aveva assegnato gran parte della decorazione della sua splendida dimora romana alla Lungara e che nella Loggia di Psiche rappresenta proprio l’allegoria della favolosa e rocambolesca storia tra Francesca e Agostino, dovette conoscere molto bene la donna alla quale, verosimilmente, il banchiere volle regalare un ritratto matrimoniale.
Credo sia questo. E nonostante i Chigi e chi per loro abbiano voluto gettare una damnatio memoriae su Francesca Ordeaschi, ritengo che la bellezza e tutto l’amore rappresentato in questo capolavoro possano renderle la meritata e immortale fama. Una fama conferitagli dallo stesso Raffaello, che volle firmare l’opera, non a caso, proprio sull’armilla indossata dalla donna, quasi come pegno di un amore condiviso nella tragica sorte dei due sposi.

Tratto da “Roma con i miei occhi”, ed. Palombi, 2018